Dossier Acta Litt&Arts : Épreuves de l'étranger

Erika Padova, Marie-Line Zucchiatti, Nicolὸ Cecchella, Claire Pellissier et Emanuela Nanni

Traduire Gérard Macé : Prose

Texte intégral

Traduction Erika Padova – Rétrotraduction Marie-Line Zucchiatti

                                                  Traduction : Erika Padova

“VICINA” AFRICA

  

Cuore di tenebra, secondo Conrad.

Continente nero, per la maggior parte di noi.

  

Un tempo considerata impenetrabile, l’Africa è ancora oggi ritenuta una terra oscura e misteriosa, un caso singolare nella storia delle civiltà, di cui talvolta, semplicemente, ci si dimentica. A dire il vero, spesso stigmatizzata a causa delle malattie, delle catastrofi e delle tradizioni apparentemente insolite che vi si associano, l’Africa, alla pari del Medio Evo, viene considerata una terra cupa anche se in realtà è luminosa e colorata, così come il Medio Evo era in realtà un’epoca vivace e policroma.

Ad aggravare il caso del continente africano si aggiunge il fatto che esso viene reputato senza storia, in quanto privo di una tradizione scritta. Per questo motivo, mi sono anzitutto recato in Etiopia, dove la pratica della scrittura, arrivata probabilmente dalla penisola arabica attraverso il mar Rosso, è diffusa fin dall’Antichità. Convertita al cristianesimo nel IV secolo, l’Etiopia, indipendente dalla Chiesa di Roma e fedele all’Antico Testamento, non ha rinnegato il giudaismo. La sua storia autonoma, legata ad Alessandria d’Egitto, è arrivata fino ai giorni nostri grazie a manoscritti miniati e dipinti sacri capaci di allietare l’occhio e lo spirito. Manoscritti in ge’ez, lingua morta divenuta la lingua delle celebrazioni, come il latino in Occidente.

  

A questo punto una domanda è d’obbligo: perché a partire dall’Egitto e dall’Etiopia la scrittura non si è diffusa anche nell’Africa subsahariana?

A volte si crede, un po’ avventatamente, che la scrittura fosse sconosciuta in queste terre, lontane dalle importanti vie di comunicazione e di scambi, in un continente sottopopolato in cui non giungevano le grandi invenzioni. Pensare questo, significa però ignorare il fatto che a prescindere dalle migrazioni, il Sahel era in contatto con il mondo arabo e che le carovane, ben prima della nascita della “tratta negriera”, scambiando merci con schiavi, portavano con esse il Corano. Pensare ciò, vuol dire anche dimenticarsi dell’influenza, talvolta inaspettata, esercitata dall’Asia stessa su questi territori attraverso l’oceano Indiano, da cui arriva anche la famosa conchiglia cauri utilizzata come moneta. Nel 1730, un viaggiatore di nome Snelgrave racconta di incontrare lungo la striscia del Sahel dei malesi che scrivono in presenza di africani, ed addirittura su loro richiesta. Gli indigeni fanno di questi manoscritti degli amuleti, che portano con sé come portafortuna oppure come prove di potere. Alla fine dello stesso secolo, Mungo Park assiste ad una scena in cui la scrittura sciolta nell’acqua diventa una pozione magica. Cento anni più tardi, ad ovest del Camerun, il sultano Njoya farà bere ai propri sudditi i caratteri della scrittura che ha da poco inventato, appena cancellati e dispersi nell’acqua. Questi due episodi, così simili, anche se lontani nel tempo e nello spazio, attestano il rapporto magico che anche noi abbiamo instaurato con la scrittura. Senza citare il latino ecclesiastico o il greco usato dagli speziali, basta ricordarsi delle assurde interpretazioni date ai geroglifici, considerati simboli sacri del volere divino o rivelazioni di una religione scomparsa, fino a quando Champollion non svelò questi falsi misteri.

  

L’assenza della scrittura, quando non dipende del tutto da una scelta, è un fenomeno la cui complessità dovrebbe risvegliare il nostro interesse, in quanto riguarda l’intera umanità. Basti ricordare che il sanscrito nell’Antichità o il giapponese fino all’VIII secolo della nostra era, furono lingue non scritte. E che le lingue non scritte sono ancora oggi le più numerose al mondo. L’introduzione della scrittura, pratica di cui è difficile render conto, è dunque un fatto antropologico fondamentale, che ci informa sulla nostra stessa storia, a condizione di non compiacersi nell’etnocentrismo e di abbandonare una visione lineare di non si sa quale “progresso”. Tanto più che oggi viviamo più epoche contemporaneamente: come diceva giustamente Barthes, gran parte di noi ha ancora una mentalità pre-illuminista.

Il legame magico con la scrittura resiste ancora oggi, ed il timore che esso sparisca ci ossessiona. In Africa, dove l’alfabetizzazione ha modificato il rapporto con i segni, rimane tuttavia qualche traccia dell’iniziazione e del segreto inerenti la scrittura ed a noi non del tutto estranei. Se si privilegia l’oralità, è per poter scegliere a chi rivolgersi, mentre un documento scritto può finire nelle mani di chiunque. Si può parlare restando tra sé e sé, con la scrittura, invece, si può diffondere la legge ed estendere i confini di un impero o, al contrario, accelerarne la disfatta.

Gli oppositori, i clandestini, i ricercati, per precauzione, ingoiavano i documenti scritti che avrebbero potuto comprometterli. Ciò che si conosce a memoria è invisibile, inviolabile, infatti chissà quanti prigionieri e poeti hanno affidato alla propria memoria (o a quella dei propri cari) le parole che dovevano farli vivere o sopravvivere.

  

Come per uno scherzo favorevole del destino, mi é appena capitata sotto gli occhi questa favola, l’autore è Pierre Bettencourt:

“Avevo messo in una bottiglia le ultime parole di mia moglie. Le lettere nere si sciolsero rapidamente e l’acqua divenne del colore del fango. Qualche anno dopo, la bottiglia fu ritrovata in un armadio: l’acqua era evaporata e, sul fondo, le lettere avevano ripreso la loro forma”.

Bettencourt non aveva sentito parlare del sultano Njoya, che a sua volta non aveva previsto l’esistenza di Bettencourt, ma è anche questo immaginario comune che ci permette di avvicinarci all’Africa, tanto quanto il viaggiare.

  

 

                                                  Rétrotraduction : Marie-Line Zucchiatti

« PROCHE » AFRIQUE

  

Pour Conrad, un cœur de ténèbres.

Pour la plupart d’entre nous, un continent noir.

  

Considérée autrefois comme un lieu impénétrable, pour beaucoup l’Afrique est aujourd’hui encore une terre sombre et mystérieuse, un cas à part dans l’histoire des civilisations. Et parfois, elle est tout simplement oubliée. À vrai dire, souvent condamnée à cause de maladies, de catastrophes et de traditions apparemment insolites qu’on lui associe, l’Afrique comme le Moyen Âge est vue comme une terre triste alors qu’en réalité elle est lumineuse et colorée, tout comme le Moyen Âge qui en réalité était une période vive et polychrome.

Ce qui contribue à aggraver le cas du continent africain est le fait qu’il est réputé ne pas avoir d’histoire étant donné qu’il ne possède pas de tradition écrite. C’est pour cette raison que je me suis tout d’abord rendu en Éthiopie, pays où l’écriture est présente depuis l’Antiquité, étant probablement arrivée de la péninsule Arabique à travers la mer Rouge. Convertie au christianisme au IVe siècle, l’Éthiopie indépendante de l’Église romaine et fidèle à l’Ancien Testament n’a pas renié le judaïsme. Son histoire autonome, liée à la ville d’Alexandrie, nous est parvenue grâce à des manuscrits enluminés et à des peintures sacrées qui charment la vue et l’esprit. Il s’agit de manuscrits rédigés en ge’ez, une langue morte devenue la langue des célébrations comme le latin en Occident.

  

Une question nous semble alors incontournable : pourquoi, depuis l’Égypte et l’Éthiopie, l’écriture ne s’est-elle pas également répandue dans l’Afrique subsaharienne ?

On pense parfois un peu à la légère que l’écriture était inconnue dans ces contrées, situées à l’écart des principales voies de communication et d’échanges, dans un continent sous-peuplé au sein duquel les grandes inventions n’arrivaient pas. Mais cela équivaut à ignorer le fait que toute migration mise à part, le Sahel était en contact avec le monde arabe. Et bien avant la « traite des nègres », en échangeant des marchandises contre des esclaves, les caravanes apportaient avec elles le Coran. Cela équivaut également à oublier l’influence parfois inattendue que l’Asie elle-même exerçait sur ces territoires à travers l’océan Indien d’où provient aussi le célèbre coquillage cauri utilisé comme pièce de monnaie. En 1730, un voyageur nommé Snelgrave raconte qu’il rencontre le long de la bande du Sahel des Malais qui écrivent en présence d’Africains et même à la demande de ces derniers. Les indigènes considèrent ces manuscrits comme des grigris qu’ils portent sur eux ou comme des preuves de pouvoir. A la fin du même siècle, Mungo Park assiste à une scène au cours de laquelle l’écriture dissoute dans de l’eau devient une potion magique. Cent ans plus tard, dans la partie ouest du Cameroun, le sultan Njoya fera boire à ses sujets les caractères de l’écriture qu’il vient d’inventer, après les avoir effacés et délayés dans l’eau. Ces deux épisodes semblables, malgré la distance spatiale et temporelle qui les sépare, démontrent la relation magique que nous aussi avons établi avec l’écriture. Sans vouloir citer le latin ecclésiastique ou le grec utilisé par les apothicaires, il suffit de se souvenir des interprétations absurdes attribuées aux hiéroglyphes, considérés comme des symboles sacrés de la volonté divine ou comme des révélations d’une religion disparue, jusqu’à ce que Champollion ne dévoile ces faux mystères.

  

L’absence de l’écriture, lorsque celle-ci ne dépend pas entièrement d’un choix, est un phénomène dont la complexité devrait éveiller notre intérêt car elle touche l’humanité toute entière. N’oublions pas que dans l’Antiquité le sanscrit ou jusqu’au VIIIe siècle le japonais étaient des langues non écrites. Et aujourd’hui encore, les langues non écrites sont les langues les plus nombreuses dans le monde. L’introduction de l’écriture, une pratique dont il est difficile de rendre compte est donc un fait anthropologique fondamental qui nous informe sur notre propre histoire à condition de ne pas cultiver l’ethnocentrisme et de se détacher d’une vision linéaire d’un soi-disant « progrès ». D’autant plus qu’aujourd’hui nous vivons plusieurs époques en même temps : comme le disait Barthes avec justesse, un bon nombre d’entre nous a encore une mentalité pré-illuministe.

Le lien magique avec l’écriture est encore actuel et la crainte qu’il ne disparaisse nous obsède. En Afrique où l’alphabétisation a modifié le rapport aux signes, persistent cependant quelques traces de l’initiation et du secret rattachés à l’écriture, des aspects qui ne nous sont pas complètement étrangers. Si on privilégie l’oralité c’est parce qu’avec elle on peut choisir à qui l’on s’adresse, tandis qu’un document écrit peut tomber entre les mains de n’importe qui. On peut se parler rien qu’à soi-même, par contre l’écriture permet de faire connaitre la loi et d’élargir les frontières d’un empire ou au contraire d’en accélérer la chute.

Par précaution, les opposants, les clandestins, les fugitifs avalaient les documents écrits susceptibles de les compromettre. Ce qui est su par cœur est invisible, inviolable. D’ailleurs qui sait combien de prisonniers ou de poètes ont confié à leur mémoire (ou à celle de leurs proches) les mots qui devaient les faire vivre ou survivre.

  

Par un hasard heureux du destin récemment ce conte m’est tombé entre les mains, l’auteur en est Pierre Bettencourt :

« J’avais mis dans une bouteille les ultimes paroles de ma femme. Les lettres noires s’effacèrent rapidement et l’eau prit la couleur de la boue. Quelques années plus tard, on retrouva la bouteille dans une armoire : l’eau s’était évaporée et au fond du flacon, les lettres avaient repris leur forme. »

Bettencourt n’avait pas entendu parler du sultan Njoya, qui à son tour n’avait pas prévu l’existence de Bettencourt, mais c’est aussi par cet imaginaire commun que nous pouvons nous rapprocher de l’Afrique, tout autant que par le voyage.

  

 

Traduction Emanuela Nanni & Nicolὸ Cecchella – Rétrotraduction Claire Pellissier

                                                  Traduction : Emanuela Nanni & Nicol Cecchella

AFRICA VICINA

  

Cuore di tenebra, stando a Conrad.

Continente nero, per la maggior parte di noi.

  

Dopo aver guadagnato la reputazione di continente impenetrabile, l’Africa è stata vista come terra oscura e misteriosa, ai margini della storia delle civiltà, se non addirittura semplicemente dimenticata. A dire il vero con le sue malattie, le sue catastrofi, i suoi costumi apparentemente strani funge da facile contraltare negativo e, proprio come il Medioevo che pur essendo vitale e policromo è stato definito “buio”, anche l’Africa è stata dipinta come tenebrosa quando invece la sua realtà è luminosa e variopinta.

Ad aggravare tale configurazione, c’è il ritenere che l’Africa non abbia una storia perché quest’ultima non è scritta. Per questo motivo sono andato prima di tutto in Etiopia dove la scrittura è conosciuta fin dall’antichità, probabilmente giuntavi dalla penisola arabica attraverso il Mar Rosso. L’Etiopia ha adottato nel IV° secolo una forma di cristianesimo che non deve niente a Roma ed è fedele all’Antico Testamento, senza rinnegare nulla del giudaismo. La sua storia assolutamente autonoma è stata tracciata fino ai giorni nostri allacciata a quella d’Alessandria d’Egitto attraverso manoscritti miniati e pitture sacre, veri e propri capolavori per l’occhio e lo spirito. Si tratta di manoscritti in antico etiope, il ge’ez, lingua oggi estinta e utilizzata quale lingua rituale esattamente come lo è il latino in Occidente.

  

A questo punto una domanda sorge spontanea: perché la scrittura, a partire dall’Antico Egitto e dall’Etiopia non si è poi diffusa nell’Africa sub-sahariana ?

Talvolta si pensa, troppo precipitosamente, che la scrittura fosse del tutto sconosciuta in queste terre escluse dalle grandi rotte e dagli scambi, in un continente scarsamente popolato dove non giungevano le grandi invenzioni. Così facendo si dimentica, oltre ai movimenti migratori stessi, che le popolazioni delle rive del Sahel erano in contatto con il mondo arabo e che le carovane che scambiavano merci contro schiavi, ben prima della tratta dei negri, portavano con esse il Corano. Si tralascia inoltre il fatto che, attraverso l’Oceano Indiano da cui arrivava la moneta sotto forma di conchiglie (la celebre cauri), l’Asia stessa esercitava la sua influenza talvolta in modo sorprendente. Nel 1730 un viaggiatore di nome Snelgrave racconta che nella striscia saheliana incontra degli abitanti del Mali che scrivono davanti agli africani e anche dietro loro richiesta. Gli indigeni fanno di questi manoscritti degli amuleti che portano con loro come portafortuna o simboli del potere. Mungo Park, dal canto suo, alla fine dello stesso secolo assiste a una scena in cui la scrittura diluita diventava una bevanda magica. Cento anni più tardi, a ovest del Camerun, il sultano Njoya farà bere ai suoi sudditi i caratteri appena cancellati e dispersi nell’acqua della scrittura che ha da poco inventato. Questi due episodi così simili, sebbene separati nel tempo e nello spazio, testimoniano l’esistenza di un rapporto magico con la scrittura che anche noi abbiamo conosciuto. Senza entrare nel merito del latino ecclesiastico o del greco utilizzato dai farmacisti, è sufficiente pensare alle interpretazioni mirabolanti attribuite ai geroglifici, caratteri sacri che traducevano il volere del cielo, o che racchiudevano le rivelazioni di una religione perduta, fino a che Champollion non fece luce su questi falsi misteri.

  

L’assenza della scrittura, quando non deriva da una scelta deliberata, è un fenomeno la cui complessità dovrebbe risvegliare il nostro più vivo interesse perché riguarda tutta l’umanità. È sufficiente ricordare che il sanscrito dell’antichità o il giapponese fino al VII° secolo della nostra era, furono lingue non scritte. Aggiungiamo che le lingue che non dispongono di una forma di scrittura sono, ancora oggi, le lingue più numerose. L’adozione della scrittura quindi, atto di cui è difficile statuire e fare cronache, è un fatto antropologico essenziale che ci fornisce informazioni sulla nostra storia a condizione di non bearsi compiaciuti nell’etnocentrismo e di riuscire ad abbandonare una visione lineare di non si sa quale forma di progresso. Tanto più che noi viviamo più età contemporaneamente : Barthes affermava più che giustamente che molti di noi hanno ancora una mentalità « pre-volteriana ».

Il legame magico con la scrittura permane e la paura della sua scomparsa ci perseguita. In Africa, dove l’insegnamento ha cambiato il rapporto con i segni, sussiste qualcosa del rito iniziatico e del segreto che non ci sono del tutto estranei. Se si predilige la parola è per scegliere il proprio interlocutore mentre un documento scritto potrebbe finire nelle mani di tutti. Con la parola si può restare tra pochi, con la scrittura si porta la legge lontano e si possono guadagnare nuove terre per l’impero, ma se ne può anche accelerare la caduta.

I partigiani, i clandestini, tutti i soggetti perseguitati prendevano la precauzione di ingoiare i documenti che sarebbero stati troppo compromettenti per loro. Ciò che si conosce a memoria è invisibile, inviolabile e innumerevoli prigionieri e poeti hanno consegnato alla loro memoria (o a quella dei loro cari) quel che doveva farli vivere o sopravvivere.

  

Il caso, che potremmo credere guidato da una mano benevola, ha appena portato ai miei occhi la fiaba di Pierre Bettencourt che recita :

« Avevo racchiuso in una bottiglia d’acqua le ultime parole di mia moglie. Le lettere nere si diluirono in fretta e l’acqua divenne color del vaso. Qualche anno più tardi, ritrovandola in un mobile, l’acqua era evaporata e, sul fondo della bottiglia, le lettere avevano ripreso la loro forma ».

Bettencourt non aveva mai sentito parlare del sultano Njoya, che dal canto suo non aveva certo previsto l’esistenza di Bettencourt, ma è anche grazie a questo immaginario condiviso che ci si può avvicinare all’Africa proprio come lo si fa con il viaggio.

  

 

                                                  Rétrotraduction : Claire Pellissier

AFRIQUE VOISINE

  

Au cœur des ténèbres, d’après Conrad.

Continent noir, pour la majorité d’entre nous.

  

Après avoir acquis la réputation de continent impénétrable, l’Afrique a été vue comme une terre obscure et mystérieuse, en marge de l’histoire et des civilisations ou tout simplement oubliée. À dire vrai, avec ses maladies, ses catastrophes, ses coutumes apparemment étranges, elle fait facilement fonction d’opposition négative et, tout comme le Moyen Âge, qui bien qu’étant fondamental et polychrome a été qualifié d’« obscur », l’Afrique a elle aussi été décrite comme ténébreuse alors que sa réalité est lumineuse et bigarrée.

Ce qui renforce cette conception, c’est l’idée que l’Afrique n’a pas d’histoire car elle n’a pas été écrite. C’est pour cette raison que je me suis tout d’abord rendu en Éthiopie où l’écriture est connue depuis l’Antiquité, probablement arrivée par la péninsule Arabique à travers la mer Rouge. Au IVe siècle, l’Éthiopie a adopté une forme de christianisme qui ne doit rien à Rome et qui est fidèle à l’Ancien Testament sans rien renier du judaïsme. Son histoire parfaitement autonome a été retracée jusqu’à nos jours, liée à celle d’Alexandrie d’Égypte, à travers des manuscrits enluminés et des peintures sacrées, véritables chefs-d’œuvre pour les yeux et l’esprit. Il s’agit de manuscrits en éthiopien ancien, le ge’ez, langue aujourd’hui éteinte et utilisée comme langue rituelle, exactement comme le latin en Occident.

  

À ce stade une question se pose naturellement : pourquoi l’écriture ne s’est-elle pas diffusée en Afrique subsaharienne à partir de l’Égypte antique et de l’Éthiopie ?

Parfois on pense, trop rapidement, que l’écriture était totalement inconnue dans ces terres exclues des grandes routes et des échanges, dans un continent peu peuplé où n’arrivaient pas les grandes inventions. Ainsi, on oublie qu’en plus des mouvements migratoires eux-mêmes, les populations des rives du Sahel étaient en contact avec le monde arabe et que les caravanes qui échangeaient des marchandises contre des esclaves, bien avant la traite des Noirs, emmenaient avec elles le Coran. On omet aussi le fait qu’à travers l’océan Indien, d’où arrivait la monnaie sous forme de coquillages (le célèbre cauri), l’Asie elle-même exerçait son influence d’une façon parfois surprenante. En 1730, un voyageur du nom de Snelgrave raconte que dans la bande sahélienne il rencontre des habitants du Mali qui écrivent en présence des Africains et même à leur demande. Les indigènes font des amulettes de ces manuscrits qu’ils gardent avec eux comme des porte-bonheurs ou des symboles du pouvoir. À la fin de ce même siècle, Mungo Park assiste de son côté à une scène où l’écriture dissoute devient un breuvage magique. Cent ans plus tard, à l’ouest du Cameroun, le sultan Njoya fera boire à ses sujets les caractères, à peine effacés et délayés dans l’eau, de l’écriture qu’il a inventée depuis peu. Ces deux anecdotes si semblables, bien que séparées dans le temps et dans l’espace, témoignent de l’existence d’un rapport magique avec l’écriture que nous avons aussi connu. Sans parler du latin ecclésiastique ni du grec utilisé par les pharmaciens, il suffit de penser aux interprétations mirobolantes attribuées aux hiéroglyphes, caractères sacrés qui traduisaient la volonté du ciel ou qui renfermaient les révélations d’une religion perdue jusqu’à ce que Champollion fasse toute la lumière sur ces faux mystères.

  

L’absence de l’écriture, lorsqu’elle ne dérive pas d’un choix délibéré, est un phénomène dont la complexité devrait éveiller notre plus grand intérêt parce qu’il concerne toute l’humanité. Il suffit de rappeler que le sanscrit de l’Antiquité ou le japonais jusqu’au VIIe siècle de notre ère furent des langues non écrites. Ajoutons que les langues qui ne disposent pas d’une forme d’écriture sont encore aujourd’hui les plus nombreuses. L’adoption de l’écriture, acte difficile à établir et à décrire, est donc un fait anthropologique essentiel qui nous fournit des informations sur notre histoire à condition de ne pas se complaire dans l’ethnocentrisme et de réussir à abandonner une vision linéaire d’on ne sait quelle forme de progrès. D’autant plus que nous vivons plusieurs époques en même temps : Barthes affirmait avec justesse que beaucoup d’entre nous ont encore une mentalité « pré-voltairienne ».

Le lien magique avec l’écriture subsiste et la peur de sa disparition nous poursuit. En Afrique, où l’enseignement a changé le rapport aux signes, il reste quelque chose du rite initiatique et du secret qui ne nous sont pas entièrement étrangers. Si l’on privilégie la parole, c’est pour choisir son interlocuteur, alors qu’un document écrit pourrait se retrouver entre toutes les mains. Avec la parole on peut rester entre soi, avec l’écriture on diffuse la loi au loin et on peut faire la conquête de nouvelles terres pour l’empire, mais on peut aussi en accélérer la chute.

Par précaution les partisans, les clandestins, tous les sujets persécutés avalaient les documents pouvant être trop compromettants pour eux. Ce que l’on connaît par cœur est invisible, inviolable et d’innombrables prisonniers et poètes s’en sont remis à la mémoire (la leur ou celle de leurs proches), ce qui leur a permis de vivre ou de survivre.

  

Le hasard, qui pourrait avoir été guidé par une main bienveillante, vient tout juste de mettre sous mes yeux la fable de Pierre Bettencourt qui dit :

« J’avais enfermé dans une bouteille d’eau les derniers mots de mon épouse. Les lettres noires se diluèrent sans tarder et l’eau devint couleur de vase. Quelques années plus tard, je la retrouvai dans un meuble, l’eau s’était évaporée et, au fond de la bouteille, les lettres avaient repris leur forme ».

Bettencourt n’avait jamais entendu parler du sultan Njoya, qui de son côté n’avait certainement pas prévu l’existence de Bettencourt, mais c’est aussi grâce à cet imaginaire partagé que l’on peut s’approcher de l’Afrique, tout comme on le fait en voyageant.

  

Pour citer ce document

Erika Padova, Marie-Line Zucchiatti, Nicolὸ Cecchella, Claire Pellissier et Emanuela Nanni , «Traduire Gérard Macé : Prose», Acta Litt&Arts [En ligne], Acta Litt&Arts, Épreuves de l'étranger, Italien, mis à jour le : 29/03/2018, URL : http://ouvroir.ramure.net/revues/actalittarts/390-traduire-gerard-mace-poesie.

Quelques mots à propos de :  Erika  Padova

Traduction français-italien

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Quelques mots à propos de :  Marie-Line  Zucchiatti

Rétrotraduction italien-français

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Quelques mots à propos de :  Nicolὸ  Cecchella

Traduction français-italien

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Quelques mots à propos de :  Claire  Pellissier

Rétrotraduction italien-français

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Quelques mots à propos de :  Emanuela  Nanni

Traduction français-italien

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